L'esigenza
del racconto ha un qualcosa di estremamente viscerale, ci distingue e a volte
ci fa' ritrovare, in luoghi, sguardi e perfino silenzi. La lunghezza di un
silenzio a volte è pesante, imbarazzante e "scambiarlo" con il
fragore di un battito di mani è una liberazione.
Più le storie sono potenti più le loro conclusioni ci fanno male o
semplicemente ci lasciano lì. Abbandonati.
Abbandonati come statue che nessuno vuole, portate chissà dove e mai più
volute.
"When We
Talk About KGB - Aš už tave pakalbėsiu" è un intreccio di vite vere,
(anche se vorresti che non lo fossero), scelte, spiate e catturate con
brutalità. Come contenitore un bellissimo palazzo neoclassico nel centro di
Vilnius proprio di fianco all'Accademia di Musica. Tetro e tristemente vero.
Uno spettatore poco attento o impreparato ad un tipo di documentario del
genere, avrebbe un po' di difficoltà a collocare personaggi o vicende storiche,
a seguire il tessuto narrativo senza avere mille interrogativi.
La drammaticità di alcune riprese, con i suoi tempi dilatati, poi, enfatizza
dei già di per sé momenti di tensione emotiva, bastano delle semplici camminate
o dei dettagli ad alimentare un senso di impotenza e l'esigenza di andare
avanti.
La contrapposizione
dolore-musica, è veicolare, la carica emotiva il ribaltamento dei ruoli, carnefice-vittima,
cattivo-buono, sancisce la sconfitta di tutti ma anche la dignità dell'uomo. Un
uomo senza memoria che ha bisogno di ricominciare.
Il documentario di Maxì Dejoie e Virginija Vareikyté va a collocarsi di diritto
nella filmografia essenziale per la comprensione di quel periodo storico ancora
purtroppo poco conosciuto.
Il film scorre sempre in modo omogeneo anche se in alcuni frangenti, il
movimento della macchina seppur volutamente netto e il materiale
d'archivio-narrazione ti riportano di colpo seduto lì sulla tua bella
poltroncina.
E' giusto ricordare, così, con una storia, con tante voci, con la forza di
una donna che parla con la voce rotta, con la voce smarrita di suo marito
Alessandro Sposato